Le malerbe che aiutano a produrre

Uno studio italo-francese: la biodiversità delle erbe infestanti che convivono con le colture agrarie contribuisce a ridurre le perdite di produzione

di Goffredo Galeazzi


Mantenere un certo livello di biodiversità tra le piante infestanti che convivono con le colture agrarie contribuisce, al contrario di convinzioni diffuse nella comunità scientifica, a ridurre le perdite di produzione. Le malerbe insomma possono aiutare a ridurre concimazione e pesticidi. E’ il risultato di una ricerca triennale basata su una collaborazione internazionale tra il Gruppo di Agroecologia dell’Istituto di scienze della vita della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e il francese Institute National de la Rechérche Agronomique (Inra), con sede a Digione, pubblicata sulla rivista scientifica Nature Sustainability

La ricerca smentisce parzialmente la convinzione che le erbe infestanti soffocano la crescita delle coltivazioni agricole. Secondo questo studio, la riduzione di resa delle colture dovuta alla competizione da parte della vegetazione spontanea non è tanto da imputare alla loro presenza quanto alla riduzione della loro diversità. Infatti, osservando con maggiore attenzione l’effetto delle così dette “malerbe”, si può notare come non tutte producano gli stessi danni alle colture. Comunità di specie più diversificate creano minori danni, in misura inversamente proporzionale all’equilibrio tra le specie.

La ragione, spiegano gli autori dello studio, è da ricercare in alcune proprietà emergenti della biodiversità: mediante un utilizzo razionale delle risorse disponibili e l’occupazione delle cosiddette “nicchie ecologiche”, le specie spontanee presenti impediscono ad altre particolarmente aggressive e competitive di insediarsi o diventare dominanti, e quindi di causare ingenti riduzioni di produzione. I risultati appena pubblicati portano un ulteriore contributo al rafforzamento dell’ipotesi che la biodiversità sia un fattore positivo. Non solo negli ecosistemi naturali ma anche negli agroecosistemi.

Nuova prospettiva per le produzioni agrarie

Questo approccio consente di guardare alle produzioni agrarie da una nuova prospettiva, come sottolineano gli autori della ricerca: basandosi sulla conoscenza delle interazioni tra specie diverse, si possono mantenere o migliorare le rese agricole riducendo in maniera significativa input quali concimi e pesticidi e, di conseguenza, anche il loro impatto sulla salute umana. Attraverso l’utilizzo della “biodiversità funzionale” e il rispetto degli equilibri ambientali, la natura può “lavorare” per noi, fornendo “servizi ecosistemici” tra i quali una produzione agraria sufficiente in termini quantitativi e di qualità, diminuendo in maniera significativa l’utilizzo di energia e di sostanze dannose.

La ricerca, durata 3 anni, si è basata sull’osservazione della densità delle erbe infestanti, sulla biomassa delle malerbe e sulla biomassa delle colture agricole, durante quattro fasi di crescita critica. In particolare è stata osservata l’interazione tra tali erbe e i cereali durante la fase di crescita invernale in 54 zone. In alcune delle 54 zone sono state piantate infestanti più aggressive, in altre mix più equilibrati e i risultati hanno appunto portato a una produzione di pannocchie sostanzialmente invariata lì dove il mix era più equilibrato.

La ricerca fa parte del progetto di dottorato di ricerca di Guillaume Adeux, allievo del PhD in Agrobiodiversity della Scuola Superiore Sant’Anna, co-supervisionato da Paolo Bàrberi, docente di Agronomia e Coltivazioni Erbacee all’Istituto di scienze della vita e da Stefano Carlesi, tecnologo, da parte italiana e da Stéphane Cordeau e Nicolas Munier-Jolain ricercatori junior e senior, da quella francese.

Poco interesse scientifico per l’agro-ecologia

Eppure, lamenta lo studio, al crescente interesse per l’agro-ecologia sia da parte di istituzioni internazionali come la Fao e la Commissione europea, sia della società civile, non corrisponde al momento un significativo riscontro nel mondo della ricerca, soprattutto in Italia. “In questo genere di ricerche, molto dispendiose in termini di tempo, per ottenere risultati pubblicabili servono come minimo tre anni di lavoro”, osserva Stefano Carlesi. “Per poter evidenziare gli effetti delle rotazioni colturali o delle pratiche agricole sulla fertilità del suolo non è raro dovere attendere 5, 7 anni o più”.

 

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