Il Pnrr dimentica la causa di un quarto delle emissioni serra

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I campi sono pensati come un’appendice delle fabbriche: agroecologia e biologico non sono neppure nominati

Di Maria Grazia Mammuccini

Peccato. Vista la forza del biologico italiano avevamo l’occasione per conquistare una posizione di testa nell’Unione europea, proprio nella fase delicata della transizione ecologica continentale. Siamo rimasti ancora una volta indietro per un ritardo culturale che non riusciamo a scrollarci di dosso. Il Parlamento ha appena approvato un pacchetto di misure che dovrebbe aprire le porte a una stagione di rilancio del Paese e che si chiama Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma i due sostantivi non sono stati utilizzati in maniera bilanciata. Il Piano è dominato da un’idea di ripresa veloce, non sufficientemente distante dal vecchio modello che ha causato il problema. Mentre la resilienza, la capacità di far durare nel tempo l’economia che si rimette in moto, è stata distribuita con il contagocce.

Questo vuol dire che il Pnrr è da bocciare in toto? Che si stava meglio prima? Certamente no. Il Pnrr è l’avvio di una transizione tecnologica che segna un miglioramento rispetto alla fase precedente. Tuttavia l’assenza persino delle parole “agroecologia” e “agricoltura biologica” – per non parlare delle politiche che queste parole sottintendono – rivela un limite grave.

L’idea di agricoltura che permea il Pnrr non è centrata sul cibo, sulla salute dei campi e – di conseguenza – sulla salute delle persone. Ma sulle esigenze del sistema industriale. I campi sono pensati come un’appendice delle fabbriche. Di qui le scelte concrete: fotovoltaico, isolamento termico dei fabbricati, tecnologie per l’agricoltura di precisione o smart (le due espressioni che ricorrono più spesso). Innovazioni – in sé –positive. Ma complementari. Quello che manca è la sostanza. Il riconoscimento che l’agricoltura e l’allevamento intensivi che si sono sviluppati negli ultimi decenni sono concausa importante della crisi climatica, dell’inquinamento delle falde idriche, dell’inaridimento dei suoli, della riduzione della biodiversità.

E del danno sociale che si è sommato al danno ambientale. Il reddito medio agricolo è peggiorato e tante aziende agricole hanno chiuso. Non a caso il settore più vitale dell’agricoltura è quello del biologico e del biodinamico: sono queste le aziende che riescono a difendere meglio il reddito dei coltivatori, la salute del suolo e la qualità del paesaggio.

E infatti in questa direzione convergono le grandi istituzioni internazionali. La Fao ha sancito la svolta verso l’agroecologia, di cui biologico e biodinamico sono le esperienze concrete più diffuse, con il convegno internazionale che si è tenuto a Roma nel 2018. L’Unione Europea l’ha fatto con Green Deal e con le Strategie Farm to Fork e Biodiversità che puntano sul biologico. Il vicedirettore della Fao Maurizio Martina l’ha ripetuto poche settimane fa in un webinar organizzato da Cambia la Terra.

Si tratta di rovesciare un modello che non ha funzionato. Per più di mezzo secolo si è provato a creare un’agricoltura a immagine dell’industria. Si sono così ottenuti aumenti di produzione, ma il prezzo è stato altissimo in termini di terra fertile persa, inaridimento che avanza, equilibri idrici saltati, impatti sanitari consistenti. Era un modello tutta ripresa e niente resilienza. E quella ripresa si è esaurita.

Ora l’Europa chiede di voltar pagina. Il Pnrr lo fa a metà. Propone il salto tecnologico in direzione della diminuzione dell’impatto ambientale, ma dimentica l’agricoltura. E, come ha ricordato il professor Riccardo Valentini, in un seminario online organizzato dalla Fisna, questo vuol dire aver dimenticato di intervenire su un quarto delle emissioni serra totali (13% dall’agricoltura, 11% dalla gestione del suolo). Gli interventi proposti riguardano solo l’altro 13% di emissioni: il sistema produttivo e logistico legato all’intero ciclo degli alimenti.

Ora si tratta di colmare questo buco di attenzione e di risorse. Di difendere un approccio all’agricoltura basato sulla conoscenza del singolo sistema territoriale, del suo microclioma, delle specifiche caratteristiche del terreno, delle varietà più adatte. Questa conoscenza non è statica: si evolve, ha bisogno di ricerca.

Per questo ci batteremo in Parlamento, nelle Regioni, in tutte le sedi istituzionali perché si varino le riforme necessarie a completare il percorso indicato dal Pnrr: la promozione dei distretti biologici per valorizzare anche le aree interne, la trasparenza digitale per il controllo delle filiere, la riforma fiscale per far pagare l’inquinamento a chi inquina.

Il Pnrr ha dimenticato che l’agricoltura sana è un buon alleato delle battaglie che costituiscono l’asse del Next Generation EU. E’ un buco di attenzione che occorre colmare.

 

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