Bio e inclusione

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Si chiama Pappaluga e si trova a Gemonio, in provincia di Varese. È un’impresa agricola che si basa sulla “bioinclusività”. Cosa significa? Vuol dire, come si legge sul sito dell’impresa, “integrazione di ragazzi con disabilità cognitiva, intellettiva e relazionale nel mondo del lavoro agricolo biologico e biodinamico, seguendo i principi della permacultura.”
L’iniziativa nasce da un’idea personale del fondatore, Davide Macchi, e padre di una persona con disabilità cognitiva, “nel dare lavoro vero, dignitoso, e retribuito a persone che non avrebbero altre possibilità”.
E la scelta è ricaduta proprio sul bio. I prodotti coltivati sono erbe aromatiche, zucchine, spinaci, pomodori, cavoli, cipolle rosse, lamponi, fragole. La vendita è all’ingrosso e attualmente l’azienda ha assunto 15 ragazzi.
Il progetto rientra in quanto stabilito dalla legge 68/99 che riguarda l’inserimento lavorativo delle persone disabili e si basa sull’adozione lavorativa a distanza: le aziende finanziano l’impresa agricola e adempiono così al loro obbligo di assunzione di persone disabili. Ma questo “non è un progetto filantropico, è un’azienda vera e un progetto editoriale”, spiegano ancora i promotori.
Da Nord a Sud, il biologico diventa così un’opportunità anche per le persone con disabilità. In località Fieri di Belcastro, nel catanzarese, infatti, si trova la cooperativa sociale Agrama. Il suo obiettivo è potenziare l’attività in serra attraverso l’installazione di un impianto di coltivazione idroponica biologica per rafforzare l’inserimento lavorativo di persone con disabilità intellettiva. Inclusione e biologico, insomma, vanno a braccetto.

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