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L’uso dei pesticidi



I pesticidi nel piatto

In buona parte dei cibi che arrivano sulle nostre tavole si trovano tracce di pesticidi. Dalle rilevazioni condotte nel 2015 da ARPA, ASL e Istituti Zooprofilattici, emerge la presenza di residui chimici agricoli nel 66 % della frutta e in circa il 40% degli ortaggi.

 

Il rapporto Stop pesticidi elaborato nel 2017 da Legambiente, dice che – nonostante un generale trend di calo nell’uso dei sostanze chimiche nei campi italiani – la quantità vendute ammontano a 400 mila tonnellate nell’UE a 28. L’Italia si piazza al terzo posto in Europa con più del 16% del totale delle vendite, dopo Spagna (quasi 20%) e Francia (19%).

Di fatto solo in una piccola percentuale dei cibi analizzati la quantità di pesticidi va oltre i limiti di legge: nel 2015, sempre secondo Legambiente, si tratta dell’1,2% dei campioni, in lieve crescita rispetto all’anno precedente. Questo significa che decenni di campagna contro la chimica nei campi e di allerta degli organismi sanitari indipendenti ha dato i suoi frutti. Ma quello che non si conosce – anche perché su questo le ricerche sono scarse e spesso osteggiate – sono gli effetti dell’accumulo di dosi “nella norma” nel nostro corpo, giorno dopo giorno. E ancor meno conosciute sono le interazioni tra differente sostanze chimiche nei nostri corpi. Sullo stesso frutto così come sulla stessa foglia di insalata si arrivano a trovare  tracce di diversi pesticidi, fino a 6 o 7 diversi principi chimici differenti. Il numero di questi cosiddetti “campioni multiresiduo” sta aumentando nei laboratori di analisi e quindi sulle nostre tavole: negli ultimi dieci anni sono cresciuti del 7%.

Cosa c’è da temere

L’inquinamento degli alimenti è un problema sempre più concreto, che – oltre ai lavoratori direttamente esposti e a chi vive accanto ai campi trattati – colpisce soprattutto i più piccoli. Alcune sostanze possono infatti arrivare al feto attraversando la placenta mentre i lattanti assorbono fitofarmaci attraverso il latte materno. In generale i bambini sono più a rischio degli adulti anche perché il loro organismo ha una capacità inferiore di metabolizzare le sostanze chimiche. Gli effetti sulla salute registrati nei bambini esposti ad alti livelli di pesticidi durante la gestazione includono ritardi dello sviluppo, ridotte capacità cognitive, problemi comportamentali e difetti alla nascita. E’ stata inoltre riscontrata una forte correlazione tra l’esposizione ai pesticidi e l’incidenza dei casi di leucemia infantile.

Molti studi hanno accertato conseguenze per la salute umana dall’esposizione “cronica” a pesticidi, ovvero all’esposizione a dosi piccole e prolungate nel tempo, rilevando un aumento dell’incidenza di vari tipi di tumori (cerebrali, alla mammella, al pancreas, ai testicoli, al polmone, sarcomi, leucemie, linfomi non Hodgkin e mielosi) e di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer. Alcuni fitofarmaci interferiscono infine con le normali funzioni del sistema endocrino e del sistema immunitario. Una persona può entrare in contatto con i pesticidi attraverso il cibo che mangia, l’aria che respira in aree agricole o urbane, bevendo acqua proveniente da fonti superficiali o di falda contaminate, addirittura attraverso residui di pesticidi presenti nella polvere delle abitazioni.

Suolo, acqua, aria

I pesticidi si trovano dappertutto. Ben 224 diversi principi chimici sono stati rilevati dall’Ispra-Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale in oltre il 60% delle acque superficiali e in oltre il 30% di quelle profonde. In almeno 274 punti di monitoraggio (il 21% del totale) questi pesticidi superano i limiti di legge. Tra le sostanze che più frequentemente superano i militi consentiti dalle leggi ci sono il glifosato – una sostanza che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità potrebbe provocare il cancro – e i neonicotinoidi, responsabile dello sterminio delle api.

 

Solo una parte del pesticida irrorato in campo raggiunge l’organismo bersaglio, la maggiore quantità si disperde invece in aria, acqua e suolo. Un utilizzo sconsiderato di prodotti chimici ha inoltre condotto a una perdita di specie viventi vegetali e animali, a una riduzione della fertilità del terreno e a una accelerazione del fenomeno di erosione dei suoli. E anche se  molti pesticidi sono stati progressivamente banditi dal commercio, in molti casi le loro molecole risultano stabili nell’ambiente e possono persistere a lungo nel suolo e nei sedimenti.

Responsabile dell’impoverimento del suolo e della qualità dei suoi frutti, l’agricoltura industriale è anche la prima causa di inquinamento dell’aria. Lo studio “Significant atmospheric aerosol pollution caused by world food cultivation” (Earth Institute – Columbia University 2016) ha messo in luce come i fertilizzanti azotati utilizzati dall’agricoltura industriale e l’allevamento intensivo degli animali siano tra i maggiori responsabili dell’aumento del particolato fine, quelle PM10 di cui sentiamo parlare come di un’emergenza continua nel nostro Paese, che provocano malattie e morti premature.

Il glifosato, una battaglia importante

In Italia si vendono ogni anno oltre 6.000 tonnellate di glifosato, uno dei contaminanti principali delle acque, il cui utilizzo su colture arboree ed erbacee, ma anche su aree industriali e civili, è cresciuto rapidamente. Dal 1992 al 2012 il suo utilizzo è aumentato di 140 volte solo negli Stati Uniti. Recentemente Legambiente ha documentato che nel 2014 la produzione mondiale di glifosato ha superato le 800.000 tonnellate e si stima che entro il 2020 la richiesta possa raggiungere il milione di tonnellate.

A metà marzo l’Echa (l’Agenzia europea delle sostanze chimiche) ha rivalutato la classificazione del glifosato, escludendo la cancerogenicità che era stata riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma confermando la pericolosità per l’ambiente, in particolare per l’ambiente acquatico. Contro il glifosato e per contrastare il parere dell’Echa, che potrebbe indurre l’Ue a prolungare per altri 10 o 15 anni il suo utilizzo, la coalizione #StopGlifosato (LINK al sito) si è impegnata nell’Ice, l’Iniziativa dei cittadini europei, una forma di partecipazione diretta alle politiche europee, per raccogliere un milione di firme contro l’erbicida.

L’agricoltura industriale: come impoverire la terra

Oggi sono circa 7.000 le specie vegetali utilizzate dall’uomo per la sua alimentazione ma ne vengono coltivate soltanto 150. La stragrande maggioranza (il 75%) degli alimenti consumati dall’uomo è fornito da sole quattro specie di piante (riso, mais, grano e patata) e da tre specie di animali: bovini, suini e pollame. Negli ultimi decenni, invece che la tutela della diversità agricola hanno prevalso le esigenze legate alla produzione e all’industrializzazione, causando la selezione e la diffusione di cultivar uniformi, sia a livello genetico che di pratiche agricole.

L’Italia è tra i Paesi europei più ricchi di biodiversità sia alimentare che naturale (abbiamo metà delle specie vegetali e un terzo di quelle animali presenti in Europa), ma questo patrimonio va disperdendosi: alla fine del secolo scorso esistevano oltre 400 varietà di frumento, nel 1996 solo otto varietà costituivano l’80% del seme.

Non è solo questione di conservare il passato. L’impoverimento delle specie vegetali è pericolosissimo, soprattutto in presenza degli effetti del cambiamento climatico. Perdere diversità significa esporsi ai danni causati da un parassita aggressivo o dalla siccità incombente. Di fatto, solamente la produzione biologica, che ha come obiettivi l’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la tutela delle risorse naturali e della fertilità del suolo è in grado di garantire sicurezza alimentare e ambientale.

Ma senza chimica si può?

Vanno sfatati anche i pregiudizi sul fatto che per sfamare la popolazione mondiale sia necessario fare ricorso all’agricoltura chimica. Oggi il problema non è aumentare la produzione agricola ma produrre in maniera sostenibile..

Nel 2016 l’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems (IPES-Food) ha pubblicato un rapporto da cui emerge che la resa media dell’agricoltura biologica è equivalente a quella dell’agricoltura industriale e il 30% maggiore negli anni di siccità grazie a resistenza e adattabilità; inoltre nelle aziende biologiche si ha il 30% di specie in più e il 50% in più di biodiversità.

Rispetto all’insieme delle imprese agricole, in Italia quelle che adottano il metodo biologico hanno un grado più elevato di diversificazione produttiva, considerato che il 22% presenta almeno un’attività connessa (agriturismo, attività sociali e didattiche, trasformazione di prodotti, produzione di energia rinnovabile) contro il 7,7% dell’intero comparto agricolo e tale differenza si accentua per soprattutto l’agriturismo (7,5% contro l’1,5%), la trasformazione dei prodotti (7,7% contro 2,5%) e la produzione di energie rinnovabili (6,8% contro 1,6%).