Ambiente inquinato. Pagano i più poveri

Sul quotidiano Avvenire le riflessioni legate a scelte su inquinamento o rifiuti che generano discriminazione sociale. Contro il rischio dell’«ecorazzismo» decisioni più partecipate e condivise. Ecco un sunto dell’articolo

di Redazione


Si dice che l’Est di Londra, la zona più povera della capitale britannica, sia stata condannata ai mali che tutt’oggi l’affliggono, primi fra tutti criminalità, disoccupazione e dispersione scolastica, dalla rivoluzione industriale e dai ‘Westerlies’, i venti che spirano sulla città da occidente verso oriente. È per proteggere i ricchi dal fumo delle fabbriche a carbone trasportato nell’aria lungo questa precisa traiettoria che, tra il 1817 e il 1881, le abitazioni destinate alla classe operaia sono state concentrate proprio a Est, laddove i veleni spinti dal vento avrebbero potuto cadere al suolo senza mettere a rischio la salute dei borghesi.

Dopo essere stato a lungo un semplice aneddoto, il nesso tra povertà e inquinamento che ha caratterizzato la storia di Londra ha acquisito evidenza scientifica solo tre anni fa quando Stephan Heblich e Yanos Zylberberg, ricercatori dell’Università di Bristol impegnati in un progetto realizzato in collaborazione con l’ateneo di St’Andrews, hanno dimostrato, dati alla mano, che quella sproporzionata esposizione all’inquinamento, vecchia quasi 150 anni, ha generato un’ingiustizia sociale mai colmata, nonostante le massicce opere di riqualificazione urbana. I numeri spiegano che a Est, per esempio, i crimini legati a droga e violenza è sempre stato più alto del 20% rispetto a quello registrato in altri quartieri.

La spirale della povertà…

Povertà che si aggiunge a povertà. Declinazione locale, verrebbe da dire, del cosiddetto ‘apartheid climatico’ globale. Il caso londinese, ovviamente, non è l’unico. Città, nazioni e continenti sono stati per secoli flagellati da politiche industriali e sociali intenzionalmente discriminatorie nei confronti delle fasce più deboli della popolazione ma è soltanto alla fine degli anni 70 che si è cominciato a parlare, dichiaratamente, di (in)giustizia ambientale. Inquadrato, genericamente, nella convenzione di Stoccolma del 1976 sullo sviluppo sostenibile, il concetto ha acquisito spessore giuridico e statistico grazie allo statunitense Robert Bullard, il padre del movimento che combatte l’’ecorazzismo’ in tutto il mondo.

Era il 1979 quando Bullard, oggi docente alla Texas Southern University, dimostrò, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria sullo smaltimento di rifiuti tossici, che l’82% dei siti scelti nella città di Houston come discariche era localizzato nei quartieri afro-americani. Ed è grazie a quella battaglia, combattuta in punta di diritto con l’appoggio della moglie avvocato, che Bullard è riuscito per la prima volta nella storia a far rientrare la ‘discriminazione ambientale’ nell’ambito degli illeciti perseguibili dalla legge.

L’ingiustizia dei pesticidi

Non occorre scomodare i luminari del diritto per riconoscere quando ingiusta, contro l’uomo e contro il Creato, sia per esempio l’esposizione ai pesticidi di chi lavora nelle piantagioni di cotone di India e Uzbekistan o, guardando in casa nostra, il lento ma costante avvelenamento da rifiuti tossici della cosiddetta ‘Terra dei fuochi’, tra Napoli e Caserta. In entrambi i casi, così come in tanti altri, si tratta di abusi dalle conseguenze mortali. Gli effetti delle scelte di gruppi ristretti di potere, pubblico o privato, ispirate al principio del ‘non nel mio giardino’ si misurano in termini di esposizione a cancro, diabete, Alzhaimer, obesità infantile e infiammazioni croniche.

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